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Sándor Márai, Il vento viene da ovest. Recensione di Claudio Mutti

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Sándor Márai, Il vento viene da ovest, Mondadori, Milano 2009

Il narratore e poeta ungherese Sándor Márai Grosschmid acquisì un successo postumo presso il pubblico italiano nel 1998, quando Adelphi pubblicò il suo romanzo Le braci, cui avrebbero fatto seguito, presso la stessa casa editrice, L’eredità di Eszter, La recita di Bolzano, I ribelli, Divorzio a Buda, La donna giusta, Le sorelle, nonché alcuni volumi di memorie.
Nato nel 1900 in una cospicua famiglia sassone di Kassa (oggi Kosice, in Slovacchia), dopo avere studiato a Lipsia, a Francoforte ed a Berlino Márai trascorre sei anni a Parigi come corrispondente del “Frankfurter Zeitung” e di alcuni giornali ungheresi; rientrato in Ungheria alla fine degli anni Venti, si stabilisce a Budapest, dove pubblica migliaia di articoli, racconti di viaggio, saggi, liriche, drammi, romanzi e una monumentale autobiografia.
Nel 1948, mentre il partito comunista consolida la conquista del potere, Márai registra nel proprio Diario l’ostilità della nuova classe politica nei confronti della sua attività letteraria: “Sull’organo ufficiale comunista un critico dichiara letteratura ‘dannosa’ tutta l’opera della mia vita”. E sintetizza nei termini seguenti i motivi del proprio anticomunismo: “Un ministro inglese ha detto: ‘Il bolscevismo è in realtà un sistema di destra’. È vero. (…) Non posso essere comunista, perché sono un uomo di sinistra; lo sono sempre stato; (…) per me è destra tutto quello che è oppressione, soffocamento della libertà spirituale; è tradimento del socialismo tutto ciò che non rispetta l’individuo”.
In quello stesso anno lo scrittore si risolve ad abbandonare l’Ungheria. Si trasferisce inizialmente in Svizzera, poi rimane cinque anni in Italia; il soggiorno napoletano gli ispira un romanzo che, uscito in tedesco col titolo Das Wunder des San Gennaro, è considerato fra le sue cose più riuscite. Approda quindi a New York (“Città interessante. Peccato che non sia fatta per essere abitata da esseri umani”); nel 1968 è di nuovo in Italia, dove rimane per un decennio; infine si stabilisce in California, a San Diego, dove morirà quasi novantenne.
Le pagine pubblicate in questo volume degli Oscar Mondadori, provenienti da quella parte del Diario che Márai riempì fra il 1943 ed il 1983, si riferiscono al viaggio che lo scrittore ungherese compì attraverso il continente nordamericano: da San Francisco a Los Angeles, dal Messico all’Arizona, dal Nuovo Messico al Texas, dalla Florida a New York.
A bordo di un aereo che da New York si dirige verso San Francisco, lo scrittore ha modo di riflettere su quel cambiamento radicale di prospettiva geografica che è stato imposto all’uomo europeo dall’annessione di metà dell’Europa allo spazio occidentale. “Vado a ovest – egli scrive – come ho fatto in passato, nella mia giovinezza. Simili viaggi esplorativi verso il punto in cui il sole tramonta significavano per un europeo venti o trent’anni fa andare a Parigi o attraversare la Manica. Quando si trattava di intraprendere un viaggio di esplorazione verso ovest, nessuno in Europa pensava a spingersi oltre. Oggi San Francisco è una delle mete più lontane del traffico occidentale. Là finisce l’ ‘Ovest’ e inizia l’ ‘Est’. Il luogo comune, secondo il quale nell’era dei jet l’oceano Atlantico separa il Vecchio Continente dall’America alla maniera in cui il canale della Manica separa l’Europa continentale dall’Inghilterra, questo luogo comune oggi è diventato realtà, e ha addirittura una tabella oraria. E in questo nuovo territorio occidentale sto ora viaggiando. Come unità territoriale e culturale, l’Ovest si è allargato. Rispetto a trent’anni fa, è aumentato di un continente” (pp. 8-9).
L’Occidente, che ha preso forma da questa estensione in direzione oltreatlantica, non è semplicemente un’area geografica: è la dimensione spaziale in cui si è tradotta in atto una potenzialità che la civiltà europea aveva tenuto a freno. E il deserto nordamericano è il paesaggio su cui l’homo occidentalis ha potuto inizialmente esplicare la propria missione. “Cent’anni fa – scrive Márai – il continente che adesso il grande apparecchio sta sorvolando era ancora deserto in modo inquietante. (…) La colonizzazione, l’avanzata dell’ideale occidentale nel nuovo spazio, era una questione di vita o di morte. (…) Non furono solo l’oro, l’argento e il petrolio a richiamare i pionieri. Fu anche qualcos’altro ad attirarli: la consapevolezza della propria vocazione, il compito di diffondere la civiltà nel mondo, di spostare verso ovest la linea di confine della missione dell’uomo occidentale. Fin dove si sono spinti in questi cento anni? Cosa ha costruito lo spirito occidentale dall’oceano Atlantico al Pacifico? Nei grandi conflitti del nostro tempo, cosa può esibire l’Occidente come realtà, come creazione?” (pp. 9-10).
La civiltà occidentale, che si è potuta pienamente realizzare nel paesaggio desertico del Nordamerica, si presenta allo scrittore mitteleuropeo come una realtà che ha rescisso ogni vincolo con l’Europa. “A questa civiltà manca il legame con la civiltà dei padri e degli avi. I padri, fosse anche solo nei loro sogni, conoscevano ancora un mondo in cui esistevano il tomismo, Kant e Voltaire; lo sognavano perché il principio di discussione, il dubbio, la linfa dialettica sono il grande fermento di una civiltà, che agisce su chiunque sia nato in Europa. Questi bianchi non conoscono gli impulsi civilizzatori che nascono dai dubbi del pensiero tomistico o kantiano. Hanno conoscenze, ma dubbi – nell’accezione in cui li avevano ereditati ancora i loro genitori europei – non ne hanno più… E se ne hanno, sono già dubbi americani… Sono privi dell’impulso della discussione” (pp. 96-97).
Márai coglie la natura materialistica e mercantile della civiltà nordamericana e la rappresenta con annotazioni sintetiche ed efficaci: “Gli americani misurano tutto con i numeri, per loro ha valore solo ciò che può essere espresso in cifre” (p. 17). “Questo grande paese non ha una capitale intellettuale. Washington è il centro politico e amministrativo, però è privo di qualsiasi traccia di scambio culturale, e New York non è altro che un grande market, un emporio letterario. Ma quello che si dice a New York non ha il minimo credito da un punto di vista intellettuale, lì ci sono solo persone leste di mano e di testa che comprano e vendono mercanzia intellettuale” (pp. 18-19).
Né gli sfugge che certi grotteschi elementi dell’American way of life costituiscono vere e proprie contraffazioni parodistiche di alcuni aspetti della civiltà europea: “Qui la dichiarazione dei redditi è una specie di diploma, come l’attestato di nobiltà in Europa” (p. 85). “Nella hall compro cartoline di El Paso: una riproduzione a colori mostra il carcere a cui siamo passati davanti poco fa. E’ un’attrazione turistica, lo mettono sulle cartoline come a Chartres la cattedrale” (p. 93). “Prendo il tè al Biltmore Hotel, uno dei più economici (…) La piscina con sabbia di mare è obbligatoria; all’ombra delle palme reali i clienti giocano solenni e ieratici a golf sul prato verde pallido bagnato con acqua costosissima, ciabattano avanti e indietro con la serietà liturgica di una setta religiosa” (p. 86).
Un altro scrittore ungherese, Áron Tamási (1897-1966), che negli anni Venti aveva trascorso un paio d’anni negli Stati Uniti, ha rappresentato nel personaggio di Ábel, protagonista dell’omonima trilogia romanzesca, le reazioni di un’anima gaia, sensibile e ricca di risorse davanti al mondo della modernità americana. Ma Ábel era tornato a fare il guardaboschi in Transilvania, mentre Márai diventò cittadino statunitense. E negli USA si tolse volontariamente la vita, nello stesso fatidico anno in cui la sua patria d’origine veniva annessa all’Occidente assieme a metà dell’Europa.

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